di Alberto Castellotti
UNA STRANA INCISIONE SUL ROVESCIO DI UNA MONETA NAPOLETANA RIVELA IL SOVRAPPORSI DI LEGGENDE PAGANE E CRISTIANE
Come ho avuto sovente modo di dire ai tanti amici numismatici professionisti, sia italiani che stranieri, che mi conoscono da anni come collezionista, mentre un tempo, in campo numismatico, avrei potuto vagheggiare il possesso di pezzi pregiati, nell’era dell’euro, a malincuore, mi devo accontentare di esemplari un po’ meno sfolgoranti. Tant’è che, con una sorta di ritorno agli anni giovanili, quando frequentavo i mercatini, mi sono riabituato a rovistare fra la minutaglia e persino sul web, che a livello globale ha preso, tra i vari posti, anche quello delle bancarelle, mi trovo sovente a vagabondare.
In una recente scorribanda ho così potuto reperire una curiosa monetina che ha avuto il merito di mandarmi un messaggio subliminale talmente esplicito, nonostante la sua modestia, che non ho potuto resisterle.
Napoli, Carlo V (1516-1554), cinquina P.R. tipo 39
MIR 151, peso gr. 1,2 circa, Ø 17,5
Al diritto: PLVS VLTRA
Le mitiche colonne d’Ercole fuoriuscenti dalle onde avvolte da una fascia e sormontate da una corona imperiale; fra di esse il monogramma IBR per Giovanni Battista Ravaschieri, maestro di zecca dal 1548
Al rovescio, di norma REX ARAGO VTRIVS
Il Toson d’oro pendente da un serto di due rami di alloro
Nel mio caso invece: un calice inciso al bulino, sovrapposto, con l’evidente intenzione di ottundere l’impronta di cui sopra.
A parte queste considerazioni, ecco di che cosa si tratta:
A questo punto è di prammatica una capatina nella storia.
A medioevo inoltrato, in terra di Borgogna, il duca Filippo, detto il Buono, ebbe l’idea di costituire un Ordine destinato a riunire 31 cavalieri di alto lignaggio ed eroiche virtù che si ispirava al mito degli Argonauti, i leggendari cercatori del vello d’oro, una pelle di montone o di ariete che dir si voglia, ricoperta del prezioso metallo. Il nome da lui scelto, riferendosi alla tosatura delle pecore, fu “Toson d’oro”.
Nessuna meraviglia che un nobile cristiano si sia ispirato a un mito pagano per dare vita a un Ordine destinato a un ruolo di prima grandezza nell’orizzonte dell’araldica europea, dal momento che nel suo intento simbolico la vicenda del vello d’oro (la pelle dell’ariete sacro a Zeus strenuamente ricercato da Giasone per preservarsi dalle potenze degli Inferi e recuperare un regno perduto) presenta una forte analogia con quella del Santo Graal, il calice in cui bevve Cristo nell’Ultima Cena e operò la transustanziazione del vino nel Suo Sangue. Infatti il carattere sacro dei due simboli ha un’origine divina: la pelle aurea proviene da Crisomallo, l’ariete alato sacro a Zeus, il Graal dal tavolo dell’Ultima Cena.
Sia l’uno che l’altro si contraddistinguono per un intento di pietà: l’ariete sottrarrà un fanciullo alla morte, come narra l’intricato racconto mitologico, il Calice consentirà a Giuseppe di Arimatea di raccogliere il sangue delle ferite di Cristo (dalla leggenda cristiana altrettanto complessa); entrambi hanno quindi avuto un rapporto con un sacrificio cruento, tutti e due, per i loro poteri sovrannaturali, sono il nucleo di una ricerca che comporta il superamento di prove di sovrumana difficoltà: la conquista del vello d’oro e la ricerca del Santo Graal.
Ad aiutarli nell’impresa scendono in campo eroi come Giasone e Parsifal, forze divine, maghi e sacerdoti.
Concludo osservando che l’incisione del calice sulla monetina napoletana dimostra l’intento dell’oscuro artigiano – non potendolo chiamare artista, vista la semplicità del suo disegno – di riaffermare la valenza del cristianesimo sui culti pagani, sarebbe come dire un gesto da defensor fidei o, se preferiamo, da iconoclasta controcorrente.
Articolo tratto da Panorama Numismatico nr.336, febbraio 2018