di Federico De Luca
LE ARMI E LE TECNICHE DI COMBATTIMENTO DEGLI ANTICHI GRECI RACCONTATE DALLE LORO MONETE, VERE E PROPRIE ISTANTANEE DAI CAMPI DI BATTAGLIA.
La necessità di difendersi dalle invasioni di altri popoli e la quasi perenne conflittualità fra le varie città-stato, favorita dalla conformazione geografica accidentata della penisola ellenica, spinse gli antichi greci ad affinare le armi e le tattiche dei fanti. Tra la fine dell’VIII e la metà del VII secolo a.C. si sviluppò così un nuovo modo di condurre la guerra e di organizzare l’esercito: la tecnica oplitica. I guerrieri greci cominciarono ad armarsi con un grande scudo rotondo, con lancia, spada, elmo, corazza e schinieri.
La lancia, impugnata con la sola mano destra, era lunga circa due metri e mezzo, era di legno di corniolo o di frassino con la punta in ferro; a volte anche all’altra estremità veniva apposta una punta metallica in modo da aumentare la potenzialità offensiva dell’arma. La lunga lancia era formidabile per affrontare il nemico corpo a corpo perché consentiva di avvicinarlo e di colpirlo frontalmente senza doversi più limitare a scagliare frecce e aste da lontano, avanzando e ritirandosi.
Oltre alla lancia, ciascun uomo disponeva di una corta spada in ferro (xiphos). Il copricapo più diffuso era l’elmo corinzio che copriva gran parte del collo e della testa fino alla clavicola ed era munito di paraguance e paranaso, elemento, quest’ultimo, di cui era privo il meno usato elmo attico. La maggior parte degli elmi di età arcaica e della prima età classica (VI-V secolo a.C.) era sormontata da un pennacchio di crini di cavallo che faceva sembrare più alto chi lo indossava.
Ma l’elemento più importante dell’armatura era lo scudo (hoplon, da cui deriva il nome “oplita“) dal diametro di circa un metro e dalla grande robustezza: era costituito da una solida struttura in legno rivestita da una lamina esterna in bronzo e sostituiva il vecchio scudo di legno e di vimini che copriva l’intera persona. Sulla parte esterna dello scudo veniva raffigurato un emblema (generalmente un animale) che era il simbolo personale del singolo guerriero o del clan a cui apparteneva. Per lo sfavillìo del bronzo sotto il sole e per i colori vivaci e la foggia bizzarra dell’emblema riprodotto su di esso, lo scudo incuteva terrore agli avversari e, insieme all’elmo dall’alto pennacchio, conferiva al guerriero che lo imbracciava un aspetto davvero feroce. Il grande scudo rotondo dell’oplita era sorretto stabilmente con il braccio sinistro che veniva fatto passare in una cinghia, mentre la mano andava ad afferrare una presa: in questo modo il peso veniva distribuito lungo tutto il braccio e non rimaneva concentrato solo sulla mano e sul polso. La presa salda e comoda dello scudo permetteva di maneggiarlo agevolmente per parare i colpi di lancia, proteggere il fianco sinistro e, contemporaneamente, offrire riparo al fianco destro del compagno che stava a sinistra nella fila della formazione.
Completavano l’equipaggiamento dell’oplita la corazza, i bracciali e gli schinieri. La corazza, in origine, era un semplice corsaletto in piastre metalliche dalla caratteristica forma a campana per non intralciare il movimento delle anche durante la marcia o la corsa; a partire dagli inizi del V secolo a.C. fece la sua comparsa un modello di corazza in bronzo a due piastre, più leggera, con parti in cuoio e in tessuto. Gli schinieri in lamina di bronzo proteggevano polpacci e stinchi fasciando la gamba del guerriero dalla rotula fino alla caviglia; erano tenuti fermi con stringhe di cuoio o metallo che passavano in appositi fori. Anche gli avambracci venivano protetti con dei bracciali in bronzo.
Questo complesso di armi (panoplia) era piuttosto costoso ma era comunque più accessibile della dotazione del cavaliere, per cui rientrava nella disponibilità anche dei cittadini della classe media. In seguito le singole poleis fornirono la panoplia a tutti i cittadini, permettendo così anche ai meno abbienti di entrare nella falange oplitica. Solo gli opliti spartani erano obbligati a dotarsi di armature tutte uguali; nelle altre poleis si stabilivano solo le dotazioni che ciascun soldato doveva necessariamente avere ed ogni singolo oplita se le procurava in base ai suoi gusti ed alle sue possibilità, personalizzandole nel modo desiderato.
I soldati, armati nel modo appena descritto, aumentavano enormemente il loro potenziale offensivo se agivano in stretta coordinazione: nacque così la falange oplitica, un solido muro di uomini, schierati generalmente in otto file, che avanzavano compatti e si proteggevano reciprocamente accostando gli scudi sia sul fronte dello schieramento che ai lati e dietro. Assestato il primo terribile urto al nemico, gli uomini delle linee retrostanti si infilavano negli spazi vuoti fra gli scudi e spingevano senza sosta coloro che si trovavano nella prima fila. Dopo aver spezzato la lancia contro il nemico (la lancia, infatti, non era molto resistente perché aveva un diametro piuttosto sottile), nel combattimento ravvicinato i guerrieri passavano a usare la spada e, quando questa veniva perduta, il loro stesso corpo, contando sulla protezione della corazza, dello scudo e degli schinieri. Lo scontro tra due falangi oplitiche, quindi, si trasformava ben presto in una vera e propria lotta di pressione, in un gigantesco braccio di ferro tra due gruppi umani.
L’armamento dell’oplita greco dell’età classica era superiore per efficienza a quello di ogni altro popolo mediterraneo: le lance greche erano le più lunghe e le corazze erano quelle più pesanti. Anche le tattiche greche nell’utilizzo della fanteria si dimostrarono superiori: nelle guerre persiane i greci risultarono vincitori anche se inferiori per numero. Più tardi, Filippo II di Macedonia (382-336) alleggerì l’armatura dei fanti e li dotò in compenso della sarissa, una lancia lunga 5-6 metri che veniva impugnata con tutte e due le mani, dando vita alla famosa falange macedone.
Alcuni opliti si servivano del cavallo per spostamenti più veloci: erano, questi, i cosiddetti hippikoi, cavalieri; per aumentare la loro velocità e libertà di movimento, col tempo si preferì alleggerirli di parte della pesante armatura oplitica. Un vero e proprio corpo di cavalleria fu creato solo dai re macedoni con i cavalieri hetairoi che utilizzavano le tattiche di combattimento dei cavalieri nomadi sciti ed erano dotati di proprie armi specifiche come la lunga lancia chiamata xiston.
L’armatura completa era piuttosto pesante (trai 22 ed i 35 kg) e dopo un po’ affaticava molto il soldato che la indossava. In estate, poi, il bronzo dell’armatura diventava rovente al calore del sole mentre sotto la pioggia il peso della corazza aumentava perché i rivestimenti interni di cuoio si inzuppavano d’acqua. Gli schinieri non erano eccessivamente pesanti ma procuravano irritazioni ai polpacci a causa dello sfregamento sulla pelle e costringevano a continue soste per riallacciarne le stringhe che si slacciavano spesso. Tutti questi inconvenienti spiegano perché il più delle volte gli opliti, specialmente negli scontri al di fuori della falange oplitica, preferivano combattere completamente nudi, armati solo di elmo, scudo, lancia e spada.
Segue: articolo completo in formato pdf, anteprima da Panorama Numismatico nr.273 / maggio 2012
2 Comments
federica
trovo quest’articolo davvero completo, redatto in modo molto preciso.molto interessante è la comparazione fra le monete, e la specifica individuazione dei temi ivi raffigurati.un complimento all’autore.
Roberto
Articolo davvero interessante ed esaustivo. Complimenti