di Adolfo Marciano
LA LETTERATURA PUO’ ESSERE UN SUSSIDIO IMPORTANTE PER LO STUDIO DELLA NUMISMATICA E PUO’ FORNIRE UN ACCESSO DIRETTO A NOTIZIE SULLA CIRCOLAZIONE DELLE MONETE.
CAVALLI, GRANA, CINQUINE, CARLINI E SCUDI RICCI NEL CAPOLAVORO LETTERARIO DEL SEICENTO NAPOLETANO: LO CUNTO DE LI CUNTI DI GIOVAN BATTISTA BASILE
Lo studio della numismatica, a parere di chi scrive, ha senso soprattutto in quanto serve a gettare luce nuova o ulteriore su questioni e problemi storiografici.
Le monete, insomma, devono valere come testimonianze concrete e tangibili di un’intera “cultura”, nel senso più ampio e profondo della parola. Perché possano assolvere a questa funzione, esse non debbono essere considerate come entità autonome, a sé stanti: non è sufficiente, in altre parole, fermarsi alla definizione dei dati metrologici, dello stato di conservazione e del grado di rarità e, meno che mai, alla pura e semplice delibazione estetica dei rilievi e dei disegni dei tondelli. E’ opportuno, anzi, di più: necessario, leggere la moneta nel contesto della società, dell’economia, delle vicende storiche della gente che l’ha coniata, posseduta, adoperata nelle transazioni commerciali o tesaurizzata.
E’ appunto ciò che nel presente articolo mi propongo di fare, relativamente a un luogo e ad un momento storico ben precisi: il luogo è Napoli; il momento è la prima metà del Seicento. Incrocerò l’evidenza delle monete uscite dalla zecca partenopea in quegli anni con le testimonianze della loro effettiva circolazione.
Tali testimonianze le ricaverò non da documenti o carte d’archivio, ma dalle pagine ben più vive, fresche ed affascinanti di un’opera di letteratura: Lo Cunto de li cunti di Giovan Battista Basile.
Mi perdonerà il lettore se inizio questo scritto con qualche breve riga di introduzione al contesto storico e all’opera.
Il luogo e il tempo
La Napoli di primo Seicento è una metropoli che conta tra i tre e i quattrocentomila abitanti; si tenga presente che, nella stessa epoca, Roma e Milano raggiungevano a stento i centomila. La città è dal 1503 la capitale di un Vicereame spagnolo; la si può immaginare come una specie di enorme “buco nero” che attira, assorbe ed inghiotte risorse, prodotti e uomini da tutto il Meridione d’Italia. A Napoli risiedono per quasi tutto l’anno i baroni proprietari di immensi latifondi in Puglia, negli Abruzzi, o in Terra di lavoro, e dalle loro terre ricevono gli immensi introiti dei loro appannaggi; all’ombra del Vesuvio risiedono i superiori delle congregazioni e degli ordini religiosi, anch’essi amministratori di sterminati patrimoni fondiari ed immobiliari; la città è sede della Corte del Vicerè, naturalmente, e dei suoi uffici amministrativi; in città lavorano gli artigiani del lusso, come orafi, tessitori, ebanisti; in città affluiscono in continuazione diseredati dalla provincia, in cerca di fortuna o dei mezzi della pura e semplice sussistenza e anche attirati dall’esenzione dal pagamento delle imposte dirette e dalla possibilità di usufruire delle distribuzioni gratuite o a prezzo calmierato di cibo e altri generi di prima necessità.
Il potere spagnolo è una zavorra pesantissima per il Meridione d’Italia. La corte di Madrid versa oramai da decenni in una condizione finanziaria disastrosa.
L’argento delle colonie sudamericane che affluisce abbondantemente nelle casse spagnole viene sprecato nei fasti di un’aristocrazia superba ed oziosa e nelle continue guerre che gli Asburgo combattono, con esiti generalmente fallimentari, in tutta Europa: dai Paesi Bassi alla Germania, dai mari d’Inghilterra alla Boemia, dal Palatinato alla Francia. L’ultima, la più disperata, feroce e distruttiva di queste guerre è scoppiata nel 1618 e si concluderà solo nel 1648: è la guerra dei Trent’anni.
I Vicerè trattano l’Italia come una colonia da spremere spietatamente a favore della madrepatria: imposte, dazi, gabelle, inefficienza e corruzione strangolano la già esangue economia di Napoli e del suo territorio. Chi ne paga le spese sono soprattutto i pochi “borghesi”, commercianti e artigiani, e l’enorme folla dei “lazzari”. Napoli è una città sovrappopolata di miserabili e di straccioni, che campano, male, alla giornata. Sfarzo e degrado coabitano fianco a fianco, nei quartieri sovraffollati del vecchio centro medioevale e aragonese, entro il quale gli Spagnoli obbligano la popolazione cittadina a risiedere, per poterla meglio controllare. La situazione è esplosiva, ed in effetti esplode: celebre rimane la rivolta del 1647, quella guidata da Masaniello e conclusa dall’effimera esperienza della Repubblica napoletana, ma altre sollevazioni si erano verificate anche in precedenza: gli studiosi di numismatica ricorderanno senz’altro almeno quella del 1622, detta della mala moneta, perché provocata da un maldestro tentativo del governo vicereale di mettere un freno alle speculazioni e alle frodi legate alla famigerata zannetta da cinque grana, della quale ci capiterà di dire qualcosa più avanti.
In mezzo a questo degrado economico e civile, Napoli rimane un grande centro di arte e di cultura; in città vivono e lavorano alcuni dei massimi protagonisti del Barocco italiano e internazionale: da Caravaggio, che vi soggiorna in due riprese, tra 1605 e 1606 e tra 1609 e 1610, al valenciano Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto, da Guido Reni al Domenichino all’architetto e scultore Cosimo Fanzago, per non citare che i più conosciuti. E’ napoletano, per passare alla letteratura, Giovan Battista Marino, il più celebre, acclamato e osannato poeta italiano del secolo. E napoletano è anche Giovan Battista Basile, nato attorno al 1575 e morto nel 1632, autore de Lo Cunto de li cunti, l’opera che ci accingiamo ad analizzare.
Segue: articolo completo in formato pdf da Panorama Numismatico nr. 265 – Settembre 2011