di Roberto Diegi
Lucius Domitius Aurelianus
Aureliano nacque da una famiglia di umili origini attorno al 214-215, nella Provincia danubiana della Moesia Inferiore.
Fece una brillantissima carriera nell’esercito, fino ad arrivare ad essere nominato comandante della cavalleria con Claudio II, contribuendo in modo determinante alla pesante sconfitta inflitta ai Goti nel 269 dall’esercito romano nella battaglia di Marcianopolis in Tracia.
Secondo alcuni, alla morte di Gallieno, nel 268, avrebbe dovuto essere lui il nuovo imperatore ma, come sappiamo, le cose andarono diversamente e venne eletto Claudio.
Ma non dovette attendere poi molto: nel 270 venne infatti acclamato imperatore e regnò sino al 275. Alla morte di Claudio, Aureliano pose rapidamente fine alle ultime resistenze dei Goti ad Anchialus e a Nicopolis, contestò le pretese al trono di Quintillo, fratello di Claudio e alla fine dell’anno 270 accettò la nomina ad imperatore.
Come appena detto, durante il primo anno di regno Aureliano fu ancora impegnato a combattere le minacce delle bellicose tribù barbare che dalla Europa orientale invadevano il nord Italia: uno dopo l’altro Aureliano sconfisse Goti, Jutungi, Vandali, Alemanni e Marcomanni. La guerra contro queste due ultime tribù fu però funestata da una sconfitta subita dall’esercito Romano a seguito di una imboscata. Le cattive notizie dal teatro di operazioni fomentarono una rivolta a Roma, nella quale si distinsero, per motivi che vedremo tra poco, i dipendenti della zecca, capeggiati da un certo Felicissimo ed appoggiati da un discreto numero di senatori.
Aureliano, sconfitti definitivamente Alemanni e Marcomanni, tornò a Roma e soffocò nel sangue la rivolta. Annoto che secondo l’Historia Augusta l’esercito subì ingenti perdite nella battaglia contro i dipendenti ribelli della Zecca che si erano asserragliati sul colle Celio. Si narra, molto probabilmente esagerando, di settemila soldati caduti, il che dà comunque una idea, in proporzione, dell’enorme numero di dipendenti che doveva avere a quei tempi la zecca di Roma.
Domata la rivolta interna, Aureliano si dedicò ad eliminare i residui focolai autonomisti che si erano nel frattempo consolidati nell’Impero. Mosse prima contro Zenobia, che aveva proclamato il Regno autonomo di Palmira in Siria e che peraltro Aureliano aveva in un primo tempo subìto, accettando persino che fossero coniate diverse monete a nome suo e di Vabalatho, figlio di Zenobia e autodefinitosi rex e dux romanorum e poi contro Tetrico, ultimo imperatore del regno Gallo-Romano fondato da Postumo.
Entrambi furono pesantemente sconfitti, in diverse riprese, e alla fine del 273 l’Impero era di nuovo unificato. Sia Zenobia che Tetrico fecero parte del trionfo di Aureliano ma ebbero peraltro risparmiata la vita e vissero tranquillamente in Italia il resto dei loro giorni.
Sistemate le questioni politico-militari sia esterne che interne, Aureliano, dopo avere peraltro provveduto a dotare Roma di una nuova imponente cinta di mura, che si può ammirare in gran parte ancora oggi, si dedicò ad una incisiva, anche se graduale, riforma monetaria.
Ho scritto “graduale”, perché in effetti la prima mossa, anche se decisamente dura, fu soltanto, si fa per dire, quella di mettere un deciso freno al malcostume dilagante in campo monetario. Nel 271 la zecca di Roma, i cui dipendenti si erano ribellati e che si erano resi responsabili di manipolazioni fraudolente delle leghe e delle monete da esse ricavate, fu chiusa a beneficio di Mediolanum e di altre zecche periferiche, specie orientali. Molti furono coloro che persero la testa, non metaforicamente, e le loro sostanze ma se nell’esercito regolare vi furono settemila caduti, sia pure con beneficio di inventario, come già detto, la portata della ribellione dovette essere decisamente grande e di conseguenza anche la reazione non poteva che essere dura in proporzione.
Nei primi tempi Aureliano si preoccupò quindi più che altro di mettere ordine nel caos monetario che si era verificato a causa della disonestà dei responsabili della zecca romana, la più importante, organizzata com’era su ben 12 officine, senza peraltro avviare una vera e propria riforma monetaria, dovendo prima risolvere le questioni mediorientali e della Gallia.
Solo nel 274 venne quindi attuata la vera grande ed incisiva riforma del sistema monetario, tra l’altro era stata anche riaperta la Zecca di Roma, articolata però soltanto su 5 officine, mentre sempre maggiore importanza aveva assunto, in Occidente, la zecca di Mediolanum e soprattutto quella di Ticinum. In Oriente si erano affermate Serdica, Cyzico, Siscia, Antiochia e altre minori.
La riforma ridiede un ruolo preminente all’aureo, che tornò teoricamente al peso di circa 6,50 grammi, come al tempo dei Severi. Però, di fatto, il peso medio dell’aureo si attestava attorno ai 5 grammi. Ma Aureliano operò soprattutto un radicale intervento nel campo delle monete divisionali, e dell’antoniniano in particolare, dando vita ad un nuovo nominale di bronzo argentato che alcuni Autori hanno battezzato aurelianeus, dal nome del riformatore, ma che io, come molti altri del resto, insisto nel chiamare ancora antoniniano, anche se la nuova moneta si presenta con nuove e decisamente migliorate caratteristiche sia di contenuto in fino che di stile, rispetto alla produzione decisamente scadente degli ultimi decenni.
Secondo Angiolo Forzoni, nella sua pregevolissima opera La moneta nella storia, citata in bibliografia, vennero anzi emessi due nuovi nominali di bronzo argentato: il primo, contrassegnato con XX.I, del peso teorico di 3,89 grammi; il secondo, del peso teorico di 2,45 grammi, contrassegnato con la sigla VSV.Il R.I.C. riporta quest’ultima sigla, il cui significato non è ancora stato chiarito, per alcune sporadiche emissioni di “denari” della zecca di Roma. Il contenuto di fino, ormai sotto forma di una sottile pellicola d’argento, si aggirava attorno al 4,5% in entrambi i casi.
Forzoni chiama questi due nominali “argentei”, ma io, come ho già detto, preferisco attenermi alla più diffusa terminologia di antoniniani e denari, peraltro adottata anche dalla stragrande maggioranza degli studiosi e degli estensori dei cataloghi d’asta.
Il peso di questi antoniniani “riformati” si aggirava nella realtà, attorno ai 4 grammi, mentre i denari, sempre di bronzo argentato, non comuni anche se negli ultimi tempi ne sono apparsi parecchi sul mercato, si attestano attorno ai 2,4 grammi.
Per quanto concerne il significato del contrassegno XX.I (o K.A. nelle legende in lingua greca) che appare su moltissimi antoniniani di Aureliano post riforma, con diverse varianti peraltro, si sono sprecate teorie su teorie. Una cosa sembra comunque certa, e cioè che questa sigla sia una indicazione di valore.
Io, anche se con tutti i dubbi del caso, in mancanza di fonti coeve sicure, mi sento di sposare la tesi che identifica tale contrassegno con il controvalore in moneta d’oro del nostro antoniniano di bronzo argentato: XX.I starebbe a significare che l’antoniniano valeva la ventesima parte dell’aureo. In altri termini occorrevano 20 antoniniani riformati per fare 1 aureo.
D’altra parte, come io mi permetto di sostenere, peraltro in ottima compagnia, se la nuova moneta di bronzo argentato di circa 4 grammi, introdotta da Aureliano, altro non era che il vecchio antoniniano al quale era stata conferita nuova dignità sia per contenuto che per forma, perché non ricordare che alla introduzione del primo antoniniano il rapporto con l’aureo era proprio di 20 ad 1? Occorrevano cioè 20 antoniniani per fare 1 aureo.
L’obiezione è scontata: sì, ma l’antoniniano di Caracalla aveva un contenuto in argento del 50%, nettamente superiore a quello di Aureliano, solo di bronzo argentato. Più che giusto, ma credo occorra anche considerare l’aspetto altamente fiduciario che aveva assunto la moneta divisionale ai tempi della riforma di Aureliano, per cui il nuovo antoniniano, solo di bronzo argentato, doveva essere paragonato ed universalmente accettato come la vechia omonima moneta in lega d’argento.
Comunque, la questione della interpretazione della sigla XX.I sugli antoniniani di Aureliano, è ancora oggetto di dibattiti. Io ho espresso una opinione che mi sembra avere una certa logica, rapportata al particolare momento storico in cui è intervenuta la riforma di Aureliano, nel quale l’aureo aveva ripreso un suo ruolo centrale come unica moneta il cui contenuto di metallo pregiato fosse garantito. Tutte le restanti emissioni, ed in particolare quelle apparentemente d’argento, avevano ormai soltanto un carattere fiduciario e anche se può sembrare un pochino azzardato sostenere che i “poveri” antoniniani di Aureliano valevano 1/20 di aureo come quelli di Caracalla, tutto trova una spiegazione con la politica “fiduciaria” adottata, anzi confermata, da Aureliano in campo monetario.
L’altra moneta di bronzo argentato, contrassegnata dalla sigla VSV, ma per pochissime emissioni come ho annotato, doveva valere la metà del bronzo argentato con XX.I. Ciò mi conferma nella opinione, già espressa, che il pezzo più grande dovesse essere un antoniniano (corona radiata e peso lo confermerebbero), mentre l’altra di peso inferiore e del valore pari a circa la metà del nominale maggiore, potesse tranquillamente equipararsi ad un denario.
Rammento, anche se per i cultori di numismatica romana la cosa è decisamente superflua, che parecchi anni prima, alla sua nascita, l’antoniniano valeva appunto due denari.
Aureliano nella sua riforma aveva voluto, in teoria, richiamarsi ai tempi dei Severi, abbastanza chiaramente per quanto concerne l’aureo. Perché non pensare che anche per le altre monete si sia voluto ristabilire lo stesso rapporto? Questa sarebbe un’altra indiretta conferma della tesi, sopra esposta, secondo la quale occorrevano 20 antoniniani per avere un aureo, proprio come al tempo dei primi Severi.
Aureliano, in alcune sue monete, viene definito Restitutor Orbis e Restitutor Exerciti. L’imperatore viene quindi esaltato come rifondatore e restauratore dell’impero e dell’esercito, la cui lealtà e fedeltà sono pure spesso messe in rilievo, con fondamento, in quegli anni in cui Roma, sotto la guida di Aureliano aveva ritrovato la pace, grazie alle armate vittoriose sulle nazioni barbare che avevano cercato di invadere il Nord Italia.
Furono anche coniati pezzi in bronzo o rame, a seconda delle officine, del valore di un asse (7,77 grammi), 2 assi (14,90 grammi) e 2,5 assi (19,24 grammi), nonché un pezzo in rame del peso di circa 2 grammi e del valore di un quadrante.
A parte l’asse che si trova abbastanza facilmente sul mercato, anche se non è proprio comune, gli altri nominali in bronzo o rame appaiono decisamente rari. Più avanti viene riprodotto un asse sul retro del quale Aureliano e la moglie Severina si danno la mano: tra loro una piccola testa del Sole, il quale assumerà sempre più importanza nel Pantheon romano, come vedremo.
La riforma del 274 fu deflazionistica e, al tempo stesso, inflazionistica. L’aureo venne deprezzato in termini di bronzo, ma dato che la circolazione monetaria era praticamente basata sul bimetallismo oro-bronzo argentato, quest’ultimo peraltro elevato alla dignità dell’argento, la riforma fu anche inflazionistica, dato il carattere ormai fiduciario della moneta corrente che valeva ben di più di quanto non contenesse in metallo pregiato.
Seuge: articolo completo in formato pdf da Panorama Numismatico nr.251/maggio 2010