di Giuseppe Carucci
COME VENIVA CONIATA LA MONETA NEL MEDIOEVO? CHI GESTIVA I GRANDI PROVENTI DELLE ZECCHE? ECCO COSA AVVENIVA NEL REGNO DI FRANCIA.
Un cronachista fiammingo ci informa che nel X secolo il conte di Fiandra Baldovino III (fig. 1) stabilì in un editto le regole per gli scambi commerciali per chi non possedesse denaro: per due galline bisognava dare un gallo, una pecora per due agnelli, una mucca per due vitelli, un vitello per due pecore e così via.
L’economia era basata sullo scambio in natura, si comprava e si vendeva poco ma comunque si commerciava anche in assenza di moneta sonante.
Tuttavia la moneta era pur sempre necessaria anche nei periodi più cupi della stagnazione economica medioevale.
Con gli ultimi Carolingi ed anche sotto i Capetingi (fig. 2) la coniazione monetaria in Europa attraversò un periodo di piena decentralizzazione. Erano operative molte zecche poiché ogni signore locale ed ogni episcopo (vescovo) voleva averne una e a volte se ne avevano due nella stessa città, quella del re e del locale feudatario e succedeva anche che le monete a nome del re venissero coniate nella zecca del signore locale o dell’episcopo.
Coniare moneta era molto vantaggioso poiché il proprietario della zecca tratteneva per sé una percentuale, a volte significativa, delle monete coniate.
Tuttavia il vantaggio principale era dato dalla diminuzione del metallo argenteo nella lega. Se nella Roma imperiale ciò portava frutti alle casse dello Stato, ora questo appannaggio restava nelle tasche del signore locale, sia laico che ecclesiastico, poiché da una stessa quantità d’argento si coniavano sempre più monete. Si pensava che se da una stessa quantità di metallo si coniassero più monete, queste potessero servire per acquistare più merci e per un breve lasso di tempo ciò avveniva ma ben presto questa moneta, più “leggera”, perdeva il suo potere d’acquisto e dava il via al processo inflattivo.
Le frequenti coniazioni di nuove monete producevano enormi utili poiché bisognava consegnare le vecchie alla locale zecca per averne in cambio di nuove dello stesso valore nominale ma con minore contenuto d’argento e quindi non essendoci equivalenza reale tra ciò che si consegnava e ciò che si riceveva la zecca del feudatario o le casse del re ricavavano enormi utili.
Per questo la gente tendeva a non consegnare le vecchie monete più “pesanti” e ad usarle nel commercio, sebbene con molta circospezione, oppure l’argento monetato si teneva da parte, lo si sotterrava o si fondeva in lingotti. Tuttavia la moneta spicciola serviva sempre e dunque parte delle vecchie monete doveva comunque essere consegnata per averne di nuove oppure dare l’argento per la trasformazione dello stesso in monete.
Cerchiamo ora di inquadrare brevemente il discorso sulla moneta in un ambito più generale che è quello socio-economico del tempo, partendo da una delle caratteristiche dell’economia dell’alto Medioevo che fu il latifondo fondiario.
Grandi estensioni di terre incolte appartenevano all’erario, lo stesso dicasi per la Chiesa, e poi c’erano le inalienabili terre feudali. L’immobilità dei rapporti tra proprietari e lavoratori, unitamente alla recessione demografica ed economica del tempo impedì un adeguato sfruttamento di quella poca terra che era liberamente commerciabile. La ripresa demografica, ed anche la cessazione delle incursioni costiere saracene, richiedeva la coltivazione di nuove terre e lo sviluppo dei centri abitati esistenti e la creazione di nuovi.
La popolazione aumentò in città e in campagna e ne conseguì una maggiore richiesta di prodotti agricoli che come conseguenza attribuì alla terra un maggiore valore.
Ripresero vigore anche i centri costieri con le loro attvità commerciali e tutto ciò richiese un aumento di moneta circolante.
I progressi economici produssero risvolti politici e sociali poiché le tasse che gravavano sul commercio e il profitto derivante dall’emissione monetaria arricchivano sovrani e signori locali e la progressiva svalutazione della moneta ridusse il valore reale delle tasse pagate dai concessionari ai proprietari determinando spostamenti di ricchezze e di individui nella scala sociale.
I sovrani concedevano il diritto di coniare dietro determinato compenso e per ammortizzarlo i signori locali coniavano monete scadenti. In ciò si distinguevano particolarmente gli appaltatori.
Succedeva che i governanti, dietro compenso anticipato, concedessero il diritto a coniare per alcuni anni a condizione che si osservassero determinati parametri per quanto riguardava l’aspetto esteriore e le legende da apporre sulla moneta. Ma se era facile verificare l’aspetto e la scritta non altrettanto lo era per il controllo della lega del metallo, ed il risultato spesso era che la moneta pesava meno di quello che doveva oppure la lega non corrispondeva allo standard. Nell’antica Roma la funzione di controllo qualitativo delle monete era svolta dai nummularii, magistrati istituiti nel 268 a.C. ed aventi il compito di esaminare dapprima i metalli destinati alla coniazione e poche le monete coniate e dare l’autorizzazione per la loro immissione nella circolazione monetaria. Il giudizio dei nummularii era ufficiale e necessario in tutte le operazioni commerciali che comportavano spostamenti di notevoli somme di denaro. I nummularii eseguivano, anche su richiesta del privato, la probatio nummorum, cioè la verifica delle monete.
L’argento per la coniazione delle monete proveniva o dal tesoro del re oppure dalle miniere di proprietà del signore locale. Il proprietario della zecca, dopo aver pagato per l’appalto e la materia prima tendeva a coniare dalla stessa quantità d’argento un numero maggiore di monete e per questo guadagnava un utile supplementare. Ma il cliente privato che portava alla zecca il suo argento e che pagava una percentuale in metallo per la coniazione non era però interessato a ricevere in cambio monete di cattivo argento.
Se da un lato la coniazione detta libera o aperta, cioè quella che avveniva con l’argento portato dai privati, tendeva a contrastare il fenomeno quella detta bloccata, ovvero quando la coniazione avveniva con il metallo derivante dalle casse del re o del signorotto locale, stimolava invece a produrre cattiva monete poiché teoricamente doveva soddisfare il bisogno pubblico di moneta circolante, ma in realtà era privata anch’essa in quanto soddisfaceva il bisogno “privato” del re e dei vassalli di ulteriori guadagni derivati dal coniare cattiva moneta.
Succedeva che la percentuale d’argento nella moneta venisse abbassata in maniera leggera, non evidente, e ciò permetteva alla moneta di poco “leggera” di circolare per qualche tempo alla pari della moneta “pesante” che conteneva tutto l’argento come da norma. Arrivava però il momento in cui ci si accorgeva che la moneta era leggera ed automaticamente diminuiva il suo valore di cambio.
Succedeva anche che l’alleggerimento della moneta fosse accompagnato dal cambiamento dell’iconografia presente sulla stessa.
Il re di Francia Filippo III l’Ardito (fig. 3), che regnò dal 1270 al 1285, ordinò ufficialmente ai vassalli di cambiare l’iconografia delle monete in caso di peggioramento della loro lega metallica. Fu questo un modo aperto di attribuire un corso obbligato alla moneta più leggera che imponeva tra l’altro il ritiro del circolante, ma succedeva che il mercato si ribellava e tendeva a non consegnare le vecchie monete e ad attribuire alle nuove un valore più basso di quello ufficiale.
Quando la piccola moneta d’argento non poteva essere più “alleggerita” poiché già di argento non ne conteneva quasi più allora si provvedeva a coniare e ad immettere in circolazione monete di buon argento le quali servivano soprattutto per il commercio internazionale. Il re comunque anche in questo caso non rimaneva senza utile poiché oltre al normale tributo si faceva pagare tasse speciali per compensare le maggiori spese che sopportava nella coniazione di monete ad alto titolo d’argento. Naturalmente queste tasse supplementari erano superiori al dovuto e quindi costituivano un abuso.
L’avvicendarsi di moneta leggera e pesante provocò più di una volta moti popolari, particolarmente nelle città dove la povertà era più dipendente dal mercato e dai soldi. Durante uno di questi moti la folla assaltò e distrusse la casa del responsabile della zecca di Parigi. In occasione di altri tumulti lo stesso Filippo IV il Bello (fig. 4), re dal 1285 al 1314, per salvare la pelle si nascose presso i Templari i quali in seguito ricevettero dal re cattiva ricompensa per l’ospitalità. Avendo infatti egli saputo delle immense ricchezze che i cavalieri avevano accumulato, con l’aiuto di papa Clemente V (papa francese, al secolo Bertrand de Gouth) ne confiscò i beni (fig. 5).
Durante il regno di Filippo il Bello si ebbe una rottura con il papato. Infatti oltre all’intenzione di tassare la chiesa il re pretendeva di processare un vescovo e ciò gli valse la scomunica da parte di Bonifacio VIII (fig. 6). Filippo inviò a Roma Guglielmo di Nogaret il quale alleatosi con Sciarra Colonna, fratello del cardinale Pietro Colonna e nemico acerrimo del papa, lo imprigionò ad Anagni (lo schiaffo di Anagni, settembre 1303) e nel 1309 impose lo spostamento della sede papale ad Avignone. Dante definisce Bonifacio VIII lo principe de’ li novi Farisei e lo colloca nel canto XIX dell’Inferno insieme ai simoniaci (coloro che, sull’esempio di Simon Mago che appena battezzato pensa di acquistare col denaro la dignità apostolica, si sono fatti “dio d’oro e d’argento” con evidente allusione al vitello d’oro degli Israeliti nel deserto. Nel citato canto Dante dice … le cose di Dio, che di bontate deon essere spose, e voi rapaci per oro e per argento avolterate).
La coniazione di monete “leggere” andava contro l’interesse dei falsari. La falsificazione di monete a peso pieno porta ad un veloce arricchimento ma è un affare rischioso poiché è relativamente facile riconoscere l’argento a basso titolo della moneta falsa se comparato a quello ad alto titolo della moneta “legale”. D’altro canto coniare monete false ad alto contenuto d’argento non è conveniente poiché l’utile non copre il rischio e quindi il gioco non vale la candela.
I falsari venivano severamente puniti e d’altro canto conti e marchesi, signori e cavalieri non erano molto meglio dei falsari. Il re Filippo IV oltre all’appellativo di Bello per la sua avvenenza fisica veniva chiamato dal popolo Filippo il Falsario per le macchinazioni che avvenivano nella sua zecca. Il deterioramento della moneta era un’arma a doppio taglio. Infatti sovrani e vassalli, nella corsa agli utili nel coniare monete, a volte andavano contro i propri interessi. Nei secoli XVII e XVIII, particolarmente dopo le Crociate, il ruolo del denaro in Europa aumentò e la stessa rendita spesso si materializzava in denaro sonante. Ma la rendita diminuiva se il contadino doveva pagare il tributo che doveva al feudatario in moneta svalutata ed allora questi disponeva di aumentare il valore nominale del tributo. Ma i signori, i quali avevano iniziato ad acquistare sempre più merci dall’estero, non potevano pagarle con moneta che se andava bene aveva di pregiato solo una sottile argentatura, ma dovevano utilizzare per i pagamenti moneta di buon argento se non addirittura d’oro.
Si arrivò anche, nel XIV secolo, al ritorno al pagamento in natura. Ad esempio il pagamento dell’affitto di un locale veniva richiesto in galline, formaggio o qualsiasi cosa che fosse commestibile. Nei giorni festivi o di domenica sulla piazza del mercato delle città si radunavano mercanti, artigiani e contadini dei dintorni con le loro bancarelle.
C’erano le bilance sulle quali si pesavano le merci e per la pesatura bisognava pagare. Nella stessa piazza si teneva, in caso di controversia, il giudizio arbitrale ed anche per questo bisognava pagare.
In questa piazza sporca e chiassosa, frequentata da commedianti, prostitute e mentecatti, focolaio di possibili epidemie e di racconti fantastici sui favolosi mari del sud e sui fiabeschi paesi d’Oriente, un giorno dopo l’altro si sviluppava il commercio con la sua annessa circolazione monetaria o con il sostitutivo dello scambio in natura e scorreva la vita, estremamente lenta, del mondo medioevale.
Articolo tratto da Panorama Numismatico nr. 266 – Ottobre 2011