di Achille Giuliani
La vitalità storiografica e letteraria della zecca aquilana e una finestra sulle vicende sociali e araldiche della città che ha permesso di riaprire l’interpretazione allegorica di un rarissimo bolognino di re ladislao, dimenticato dagli studiosi di numismatica e creduto unico.
In una delle mie prime letture sull’oreficeria aquilana nella tarda età di Mezzo rimasi sgomento nel seguire lo stizzito botta e risposta, mostrato ai primi del Novecento dalla Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti, tra due cultori di storia dell’arte, Vincenzo Balzano e Pietro Piccirilli, scettici, l’un con l’altro, delle personali intuizioni legate al momento storico in cui la scuola d’oreficeria poté fiorire nella città dell’Aquila. Un sorta di duello, a colpi di sommarie attribuzioni d’opera e di prove documentali, che piace riproporre con due passi tratti dalle lettere spedite, con risentimento, all’attenzione del direttore di quella pregevole e, da tempo, soppressa rivista.
(Dicembre 1906, scrive Piccirilli): «Tanto dibattito fa proprio piacere, perché si ha a che fare con persone cortesi e colte e non con i così detti arrivisti i quali, a costo di rompersi il collo, si buttano a corpo perduto pur d’arrivare a far conoscere al lettore il vario loro sapere. Francamente, poi, ti confesso che non saranno sudori sprecati, perché, in fin dei conti, qualche cosa di utile se ne ricava».
(Febbraio 1907, scrive Balzano): «Bisogna esser persuasi di non tenere la storia d’un’arte d’un paese, d’una regione, se prima non siano esaminate con quella precisa intenzione le memorie, le cronache, le leggi, gli statuti, le lettere, le carte de’ privati e dei pubblici archivi, che ci rimangono, i segni di vita di quell’arte nella popolazione da cui fu ab antico praticata».
Articolo completo in pdf: Giuliani L’Universitas aquilana tratto da Panorama Numismatico nn. 277-278, ottobre-novembre 2012