LA MEDAGLIA DEL BATTAGLIONE CACCIATORI DI SAN LEO
di Battista Magalotti
In occasione del 50° anniversario della liberazione di San Leo (24 settembre 1910) i volontari superstiti, non dimentchi dei fatti gloriosi del Risorgimento feltresco, fecero coniare una medaglia in bronzo con appicagnolo nel diametro di mm 31 per il Battaglione di San Leo (medaglia apparsa in asta Nomisma nel 1998).
Al recto vi è impresso lo stemma comunale di San Leo, recante nella parte sinistra la figura del poverello di Assisi in atto di predicare ritto su un muricciolo all’ombra di un grande olmo (Francesco in questa città l’8 maggio 1213 ricevette in dono dal Conte Orlando Cattani da Siena, Signore di Chiusi nel Casentino, il sacro monte della Veruce).
Nella parte destra l’aquila feltresca. Il tutto attorniato sa rami d’alloro sormontati da nastro con scritta VETVSTA FERETRANA CIVITAS INVICTA S. LEONIS e corona nobiliare. Attorno la dicitura AL PRODE BATTAGLIONE DI S. LEO.
Al verso di una veduta dell’aereo baluardo e della città con in primo piano la figura idolopeica della Vittoria andante ad ali spiegate con vessillo al vento, le date 24 settembre 1840 – 1910. Nel giro la scritta 50° ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE DI S. LEO. Sotto le sigle S.J.
Nella stessa circostanza fu inaugurato nella piazza una lapide marmorea con epigrafe dettata da Pio Squadrani che recita “Il 24 settembre 1860/ Le mercenarie sldatesche di Roma Papale / dominanti dal forte / secolare baluardo di una mala signoria / accerchia e strette / dalle schiere insurrezionali / al tonare delle artiglierie / si arresero a diserzione / di moribonda tirannide / ad iniziativa cittadina nel primo cinquantenario”.
Per meglio comprendere la mentalità anticlericale dei patrioti superstiti verso il dominio papale, giova ricordare che il governo pontificio inviava nel forte di San Leo i prigionieri politici e i delinquenti comuni più pericolosi certo della loro sicurezza.
Ripetere, sia pur succintamente, la storia millenaria di questa orrida rupe (bella a vedersi) posta a 639 metri sul livello del mare, sarebbe portare vasi a Samo. Scoscesa da ogni parte, con pareti perpendicolari, è praticamente inaccessibile. Tuttavia fu arditamente scalata nel 1441 dal giovane Federico da Montefeltro con l’aiuto del capitano d’armi Matteo Grifoni di Sant’Angelo in Vado a forza di chiodi e scale. Il compito di ridisegnare la rocca, per sostenere gli assalti delle nuove armi da fuoco, fu affidato al genio del famoso architetto militare Francesco di Giorgio Mastini di Siena. Trasformata successivamente a prigione di stato, per la rigidità del sistema carcerario era considerata lo Spielberg dello Stato Pontificio. Vi troviamo, il 21 aprile 1791, Giuseppe Balsamo soprannominato Conte di Cagliostro, arrestato in Roma il 27 dicembre 1789, quale “propagatore di empi sogni della setta egizia” tradito dall’infida moglie che lo fa condannare dal Sant’Uffizio alla pena capitale, che Pio VI il 3 maggio 1791 commuta in carcere perpetuo nella rocca di San Leo, “dove dovrà essere strettamente custodito, senza la speranza di grazia”. È rinchiuso dapprima nella cella del tesoro, antico ripostiglio custode dei tesori dei signori di Montefeltro, duchi di Urbino. Quindi nella parte più tetra del carcere, un pozzetto lungo 3 metri, largo 2,5 e alto 3.
Il patriota Francesco Orioli di Viterbo, nella visita fatta a San Leo nel 1822, definisce quella cella “una specie di pozzetto da far rabbrividire, non v’era finestra, ma verso il soffitto una piccola feritoia nel muro grossissimo, dal quale può penetrare un riverbero di luce diurna, il sole direi di no”. È interessante leggere, contro le varie romanzate fini del presunto conte, l’atto della morte del parroco del tempo Don Luigi Marini: “Nell’anno del Signore 1795 nel giorno 30 del mese di agosto, Giuseppe Balsamo conosciuto per Conte Cagliostro, palermitano di patria, cristiano di battesimo, di dottrina incredulo, eretico, celebre per trista rinomanza; dopo aver sparsi per varie regioni d’Europa gli empi principi della setta egiziana, a cui fattosene banditore, aveva coi prestigi attratto una turba senza numero di seguaci, e dopo essere uscito illeso col mezzo dell’ingannevole sua corte da più contingenze pericolose, fu ala fine per sentenza della Santa Inquisizione relegato a vita (in attesa di ravvedimento) nella rocca di questa città. Dove avendo immutata ostinazione sofferti i disagi del carcere per quattro anni, quattro mesi e cinque giorni, assalito in ultimo da un violento colpo di apoplessia, senza dare alcun segno di pentimento, mantenendosi pervicace di mente e impenitente di cuore, morì in compianto fuori del grembo della Santa Madre Chiesa, d’anni 52, mesi 2, giorni 18. – Infelice fu la nascita, più infelice fu la vita, infelicissima fu la morte accaduta nel giorno 26 dell’anno sopraddetto a tre ore e mezzo di notte… In fede di che Luigi Marini arciprete- di propria mano”.
Poco dopo la morte di Cagliostro, le carceri leontine accolsero continue schiere di patrioti romagnoli e marchigiani. Impossibile enumerarli tutti. Si ricorda l’anconetano Tommaso Bambocci, condannato a cinque anni il 19 aprile 1796, quale complice della cospirazione ordina in Bologna nel 1794; gli imolesi Dott. Luigi Angeli ed il figlio Giambattista, ivi pure relegati nel 1796. Dopo la cospirazione maceratese del 1817 ed il tentativo rivoluzionario marchigiano del 1820 – 1821, vi arrivarono nuovi gruppi di prigionieri politici. Vi fu rinchiuso il Conte Cesare Gallo di Osimo che sopportò pene atroci e qualificò San Leo “Lo scoglio del pianto”. Vincenzo Pannelli di Macerata, rintanato in un tugurio, vi impazzì e non volle più allontanarsi da quella tana. Il Conte Folfi di Forlì, condannato nel 1826 a sei anni di carcere da scontarsi nel forte di San Leo per l’atto anticlerale dello sparo di una castagnola di polvere nella cattedrale di San Merculiare. Con lui coinvolti Eugenio Romagnoli e Luigi Barzetti, condannati questi però a sole pene spirituali. Nel 1843 vi fu rinchiuso per lungo tempo anche il Dott. Domenico Belzoppi, noto reggente sammarinese, che il 31 luglio 1849 darà rifugio in San Marino al generale Garibaldi con i resti della sua legione. Nell’ultimo periodo della signoria pontificia 1850 – 1860, le carceri ospitavano 207 prigionieri tra politici e comuni. Dai registri parrocchiali risulta che, dall’aprile 1857 al novembre 1860 vi morirono oltre 100 detenuti. Alcuni al tormento della reclusione preferirono sfracellarsi gettandosi dalla rupe. Narra l’Orioli nella sua autobiografia che un prigioniero, dopo aver ricevuto 50 bastonate, a flagellazione avvenuta ottenne il permesso di appoggiarsi alle mura di parapetto da dove si gettò a capofitto nel vuoto. Ancora per motivazioni politiche, nel giugno 1843, conobbe il forte di San Leo anche Felice Orsini con altri 18 romagnoli fra i quali i riminesi Enrico Serpieri, Andrea Borzatti, Rinaldo Parmeggiani, Eusebio Burbetti di Russi ed altri che vi restarono per circa sei mesi.
Morto Gregorio XVI, il nuovo pontefice Pio IX emanò l’amnistia generale che vuotò anche le carceri di San Leo. Molti credono che il pontefice volesse contribuire all’unità d’Italia. Presto ripresero invece più forti e continui i moti rivoluzionari.
La Romagna si libera del giogo pontificio nel giugno 1859; le giunte provinciali di governo fanno sventolare sulle loro torri il tricolore italiano in segno del cessato governo papale.
Il Montefeltro è terra di confine che amministrativamente fa parte delle Marche, ma gravita verso la Romagna, sia per le vie di comunicazione che per la vicinanza ai centri di Rimini e Cesena. Fu perciò designato dai direttivi di Bologna e Rimini come luogo ideale per la rivoluzione, che doveva scoppiare nel mese di settembre, per giustificare l’intervento delle truppe italiane delle Marche e nell’Umbria.
Si fa leva sullo stato d’animo delle popolazioni confinanti sotto differenti governi; la polizia austro-pontificia, sorveglia strettamente la zona, commettendo spesso soprusi e ruberie. Ciò accresce l’odio e la ribellione. A raccogliere volontari è chiamato a Bologna un impiegato nell’amministrazione ferroviaria, Filippo Stanzani, ardente patriota, che in poco tempo ne arruola a 200 e che a piccoli gruppi da passare a Forlì, dove ricevono fucili, ammassati quindi a Cesena. Autorizzato dal Generale Cialdini, ne assume il controllo lo stesso Stanzani. Un’altra colonna di 275 uomini di forma a Perticara provenienti: 9 1 da Cesena, 8 da San Leo, 35 da Sant’Agata Feltria, 10 da Fermigano, 26 da Sarsina, 35 da Perticara, 12 da Sogliano, 3 da Borghi, 35 da Talamello e 19 da Mondaino al comando di Bartolo Talentoni.
A capo del movimento insurrezionale è Luca Salvani di Sarsina. Il primo centro ad essere liberato dai volontari è Sant’Agata Feltria. Riunite le diverse colonne il 12 settembre passano a guado il fiume Marecchia. Il 14 settembre viene approvata la formazione del battaglione che prende il nome di “Cacciatori di San Leo” composto da 4 compagnie, lo stato maggiore di 4 ufficiali e un corpo musicale.
La descrizione dell’assedio sostenuto dai volontari del Montefeltro è minuziosamente redatta in un opuscolo edito a Torino nel 1860, curato dallo stesso comandante del blocco Carlo Alberto Solarolo.
Occupate le posizioni attorno a San Leo, tengono le forze austro-papali sotto il tiro dei fucili impedendole le sortite. Inviano più volte ambascerie per la resa incondizionata al comandante la fortezza, sempre respinte. Anzi, dagli assediati, viene aperto il fuoco di cannoneggiamento, in attesa dei rinforzi da Ancona. Richiesta al Generale Cialdini l’artiglieria, questi invia una compagnia di zappatori, munizioni e cannoni al comando del maggiore del genio Morando. Il sindaco di Verucchio, per il trasporto, fa requisire 24 paia di buoi, più 24 paia di rinforzo, essendo la strada dell’ultimo tratto molto mal maneggevole. Le artiglierie arrivano a Castelnuovo dalla parte del torrente Marzocco, sotto la scorta dei fucili dei volontari. Venuti a conoscenza da un disertore che la guarnigione del forte ha requisito agli abitanti di San Leo vestiari borghesi, intenzionati a una sortita per mettere scompiglio tra i volontari, il comandante fa distribuire ad ogni assediante una coperta da campo da portare a tracolla e così riconoscere eventuali intrusi.
All’alba del 24 settembre, l’artiglieria del battaglione apre il fuoco contro il forte. La direzione della guarnigione comprende che non c’è possibilità di scampo se non nella resa incondizionata. Fatto cessare il fuoco, l’intero corpo dei volontari con in testa la bandiera crivellata da pallottole nemiche, la musica del corpo diretta dal maestro Francesco Angeli di San Marino, entra in San Leo fra gli evviva dei pochi abitanti.
La compagnia comandata dal luogotenente Neuma Ricchi, prende possesso del forte e dell’artiglieria pontificia.
Furono fatti prigionieri, con l’onore delle armi, 4 ufficiali e tutti i soldati della guarnigione. Il 27 settembre la gioventù di Bologna, Ravenna, Cesena e del Montefeltro fa ritorno ai luoghi d’origine.
Articolo tratto in forma integrale da Panorama Numismatico n. 146/Novembre 2000, disponibile anche in formato PDF