UN PRETESTO POETICO E DOTTO PER INDICARE LA RADICE UNITARIA DELLO STATO ITALIANO
Post occasum Urbis è una trilogia scritta da Pascoli nel 1907. Si compone di tre poemetti: Solitudo, Sanctus Theodorus e Pallas, incentrati sul tema della decadenza di Roma. Roma appare una città ormai distrutta, abbattuta, deserti e abbandonati sono i luoghi, simbolo dell’antico splendore, usurpati da nuovi culti.
Ma Roma è la città destinata a vivere per sempre e il suo passato glorioso emerge e respira ancora dalle rovine, che testimoniano, per riaffermarla, la sua eternità. Le fonti primarie dei tre poemetti sono storiche: Gregorovio e Guglielmo di Malmesbury, ma sapientemente inserite in continui prestiti classici, virgiliani e ovidiani.
Recita la prolusione al commento di Marino Barchiesi, nell’edizione Mondadori dei Carmina, del 1951, a cura di Ma- nara Valgimigli, p. 654: “L’inno, in una prima stesura di 100 esametri, fu presentato nel febbraio 1911 al concorso bandito per il Natale di Roma, nel cinquantenario del Regno. I concorrenti furono circa 150. La giuria, di cinque membri, era presieduta da Guido Baccelli. A nessuno fu assegnato il primo premio (medaglia d’oro e lire 1000 in denaro). Al Pascoli fu assegnato il secondo premio (medaglia d’argento e lire 500). E fu pubblicato al primo posto in un fascicolo che conteneva insieme, in ordine di merito, altri sei poemetti con questo titolo: Carmina praemiis et laudibus in certamine poetico ornata quod S.P.Q.R. edidit ad diem natalem Urbis anno ab regno Italico istituto L solemniter celebrandum, Romae MCMXI. Subito dopo il Pascoli ampliò l’Inno che fu pubblicato nel giugno dell’anno stesso dalla Casa editrice Zanichelli, con aggiuntavi una traduzione italiana in endecasillabi sciolti e accompagnato da questa significativa didascalia: carmen composuit latina lingua tum vetere tum recenti Johannes Pascoli (cfr. lo scritto di Pasquale Vannucci, G.P. e la curiosa vicenda di un concorso per un «Hymnus in Romam», in L’Urbe, Roma, 1952)”.
Partecipare al certamen e vincere una medaglia, non significava per Pascoli ottenere solo un premio significativo che, in qualche modo, provenendo dal Campidoglio, lo accomunasse a illustri predecessori, come Petrarca, quanto vedere ricono- sciuto, in prosecuzione e sottile polemica con Carducci, il suo contributo creativo al tema politico, sociale e, soprattutto, poetico dell’Unità d’Italia, che ne caratterizzerà l’ultima produzione in italiano. Proprio attraverso la poesia, quella latina in particolare, il poeta tornava all’origine stessa della cultura italiana, che aveva avuto in Roma il centro propulsivo della storia, almeno dai tempi della res publica, fino all’affermazione del cristianesimo. Egli, con intuito geniale, riconosceva a Roma il merito di aver propagato, in Europa e oltre, temi umani, culturali, religiosi, che non erano mai stati limitati dalle contingenze storiche, non erano, cioè, mai stati solo contemporanei a se stessi, ma, sotto la spinta unificatrice di Roma, erano diventati universali.
Questo per Pascoli, ma ancora oggi, per noi, rappresenta l’eredità incancellabile della cultura romana e, per assimila- zione, di quella greca. La stessa diffusione della religione cristiana, di cui tanto si parla in questo poemetto, non sarebbe stata possibile senza una preparazione severa dei temi storici, filosofici, morali che ne permisero l’inserimento capillare nell’evoluzione della società romana, dal II al V secolo d.C., periodo storico in cui quella che, erroneamente, definiamo una fase decadente, se non distruttiva, del mondo pagano, significò, in realtà, la nascita e il fiorire prepotente della cultura cristiana, da cui dipenderanno tutti i secoli successivi.
Perciò, l’attenzione del poeta è rivolta al modo introspettivo con cui i Romani accolgono il nuovo credo, sia pure in mezzo a rovine esteriori, che sembrano definitive, mentre è proprio da lì che si sforzano di creare nuove condizioni di vita e pensiero, per costruire una storia molto diversa dal passato.
Scrivendo Post occasum Urbis, Pascoli pensa proprio a questa situazione se è vero che, dopo secoli di lotte e divisioni, l’Italia era stata nuovamente unita, non solo da eventi politici, che sono il luogo esterno di contenimento di tutte le istanze più profonde della natura del nostro paese, quanto, ancora una volta, dalla disponibilità di milioni di uomini e donne a vivere una poesia quotidiana della sofferenza, del sacrificio, della costruzione di sé che fosse in grado di interpretare un’in- tera comunità pronta a ricostituirsi, riappropriandosi della propria storia che è, soprattutto, cultura antica. Questo spiega perché Pascoli a fianco della poesia nazionalista in italiano, ultima parabola, ingiustamente trascurata, della sua attività creativa, abbia usato anche il latino, già presente nei poemetti sul mondo pagano e cristiano, scelto con il pretesto di un concorso di poesia, per ricominciare dalle rovine dell’Impero Romano e, da quelle, riaffermare, simbolicamente, la forza di un popolo che, in quel momento storico, aveva bisogno di forti punti di riferimento nell’humanitas dei padri.
L’antichità è per Pascoli un serbatoio cui attingere per capire, motivare e cambiare la realtà contemporanea, anzi, un luogo di interpretazione filtrato dalla poesia che, dopo qualsiasi evento, sia pubblico sia privato, è, per così dire, il distil- lato più profondo di ogni memoria. Per questo, il poemetto inizia con il vuoto della distruzione, che non è compianto sulla fine di Roma, ma necessità di dire perché Roma finiva, anzi doveva finire. Si esauriva interamente un mondo, ma ne iniziava un altro, che avrebbe, comunque, usato tutta la cultura romana in altro modo e non ne avrebbe più fatto a meno. In un certo senso, quella morte era necessaria per una resurrezione più ampia, che avrebbe dato frutti imprevedibili, nel bene e nel male.
Segue: articolo completo in formato PDF da Panorama Numismatico nr.268 Novembre 2011