Studio del Dott.Stefano Poddi tratto dagli atti del XV International Numismatic Congress di Taormina, 2015. Info: inc-cin.org
“La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi…”, cosi scriveva Karl von Clausewitz (1780–1831) nel suo trattato di strategia militare “Della guerra” (Vom Kriege), al quale lavorò dal 1818 al 1830 e che venne pubblicato postumo nel 1832.
La guerra però, anche se può essere considerata uno strumento politico, quindi frutto di una decisione di organismi politici rappresentanti la maggioranza della comunità, ha effetti ben più cruenti e devastanti di ogni altro strumento politico, e’ una strada senza ritorno dove ci si gioca il tutto per tutto.
Un conflitto militare, al di là di quanto scriveva, tentandone una razionalizzazione, il teorico militare prussiano, e’ costituito da tattiche e strategie, da uomini e mezzi, da paura e terrore, da feriti, morti e moribondi.
Oltre al grande numero di morti, mietuti fra le fila dei combattenti, ma spesso anche falciati fra i civili, le guerre producono anche prigionieri di guerra, catturati fra gli avversari durante gli scontri e le battaglie; questi nei primi conflitti venivano uccisi o resi schiavi, cosa che accadeva anche per i bambini, le donne e gli anziani, della tribù o della comunità sconfitta.
Il prigioniero, in questo caso, non era depositario di alcun diritto, la sua sopravvivenza dipendeva esclusivamente dalla sua possibile utilità per chi lo avesse catturato e dalla quantità di cibo disponibile per la sua sopravvivenza.
Nel corso dei secoli la figura del prigioniero di guerra cambia in sintonia con lo spirito del tempo, i suoi diritti e il suo trattamento vengono influenzati dall’etica e dalla morale, che con fatica si vanno imponendo nella società civile.
Durante il Medioevo il prigioniero poteva valere un discreto gruzzolo a seconda della posizione sociale ricoperta, invalse quindi la pratica della richiesta del riscatto per liberarlo.
Durante il XVII secolo con il “Trattato di Westfalia” (1648), ritenuto lo spartiacque per quanto riguarda la schiavitù per i prigionieri di guerra, venne sancita la liberazione dei prigionieri senza la corresponsione di riscatto alcuno.
Nel XVIII secolo si impose un nuovo modo di pensare e un atteggiamento moralistico pervase il diritto internazionale, questo ebbe un profondo effetto sulla gestione dei prigionieri di guerra.
Montesquieu nel suo “L’esprit des lois“ (1748) scrisse che l’unico diritto che avesse il catturante sul catturato, era quello di impedire al prigioniero di fare danni, il prigioniero quindi non era più una sua proprietà.
Anche altri filosofi e maître à penser si espressero in tal senso, Jean-Jacques Rousseau ed Emerich de Vattel; tratteggiando quella che potremmo definire come la “Teoria della quarantena“ per la qualificazione dei prigionieri di guerra, ovvero una collocazione che escludesse ai prigionieri la possibilità di tornare a combattere, ma che in ogni caso li considerasse come uomini e come tali depositari di diritti.
In seguito Henri Dunant (1828-1910), un imprenditore e filantropo svizzero, dopo aver assistito alla Battaglia di Solferino e San Martino (24 giugno 1859, Seconda Guerra di Indipendenza), combattuta fra l’esercito franco-sardo e quello prussiano, descrisse le sofferenze e gli orrori dei quali fu testimone, nel suo capolavoro “Un ricordo di Solferino”, il libro idealmente destinato ai regnanti europei, ebbe invece un notevole effetto nella parte più sensibile e più acculturata della società.
Nella sua opera Dunat rappresentava le due facce della guerra, quella dignitosa quando non eroica di pubblica conoscenza, e quella sconosciuta e fino ad allora privata, che riguardava l’abbandono a se stessi dei feriti e dei morenti sul campo di battaglia fra sangue, lacrime ed escrementi.
Questo libro risvegliò le coscienze degli intellettuali, altruisti e filantropi d’Europa e fu d’ispirazione sia per la creazione della Croce Rossa (di cui Dunant fu un fondatore), che per le Convenzioni di Ginevra, relative ai trattati internazionali in relazione ai diritti umanitari; la prima di questa Convenzioni venne firmata nel 1864.
Alla prima ne seguirono altre, riguardanti temi particolari o aggiornamenti delle precedenti Convenzioni.
Il 12 agosto 1949 vennero adottate quattro convenzioni, destinate a sostituire tutto il corpo giuridico preesistente:
- Ia Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei feriti e dei malati delle Forze armate in campagna.
- IIa Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle Forze armate sul mare.
- IIIa Convenzione sul trattamento dei prigionieri di guerra.
- IVa Convenzione sulla protezione delle persone civili in tempo di guerra.
Tali Convenzioni perseguivano e ampliavano la tutela dei prigionieri di guerra, nello specifico impegnavano i firmatari ad alcune regole di comportamento.
Ad esempio che i prigionieri di guerra dovevano essere rimossi dalla zona di combattimento ed esser trattati umanamente, nella definizione di prigioniero di guerra che non erano solo i membri delle forze armate ma anche quelli delle milizie, i volontari, i membri irregolari ed i movimenti di resistenza, ma anche i civili che accompagnavano le forze armate: i corrispondenti di guerra, i civili dediti agli approvvigionamento e gli addetti alle unità di servizio.
Ma torniamo ora alla Seconda Guerra Mondiale, dove per quanto riguarda il diritto internazionale, era vigente la Convenzione di Ginevra del 27 luglio 1929, che anche la Germania nazista aveva firmato, ma che nella pratica disattese in modo clamoroso, ma di questo purtroppo se ne ebbe certezza solo a guerra finita.
Il 1 settembre del 1939, fu l’inizio della guerra, Hitler invase la Polonia innescando il secondo conflitto mondiale, due giorni dopo il 3 settembre Francia e Gran Bretagna dichiararono guerra alla Germania.
Era il 10 giugno del 1940 quando, il “Bel Paese” guidato da Benito Mussolini, che confidava in una guerra breve e vittoriosa per l’imminente caduta della Francia di Petain, entrò in guerra alleata della Germania.
La Seconda Guerra Mondiale si caratterizzò subito come una guerra di movimento e non una guerra di trincea come la Prima Guerra Mondiale; con un numero cosi elevato di combattenti schierati, il numero dei prigionieri italiani raggiunse, già nel maggio 1943, la cifra impressionante di 250.000 unità.
Le guerre erano diventate guerre di massa e il divario di forze, ma soprattutto di equipaggiamento in un teatro di guerra difficile come il deserto, aveva provocato un numero molto elevato e inaspettato di prigionieri di guerra, che gli anglo-americani dovevano gestire, nel rispetto delle Convenzioni di Ginevra.
Sia durante la campagna in Nord Africa che in quella siciliana gli Americani iniziarono ad utilizzare indirettamente i prigionieri di guerra italiani per la propaganda, attraverso il massiccio lancio di volantini, nei quali cercavano di convincere gli italiani alla resa:
” … se i soldati italiani si fossero arresi e non avessero riconsegnato i prigionieri alleati ai tedeschi, i prigionieri di guerra italiani catturati sarebbero stati riconsegnati nelle loro mani.”
Questa promessa venne pronunciata anche dallo stesso Eiseinhoower, Comandante delle forze alleate nel Mediterraneo.
Quando Churchill venne a conoscenza di questa propaganda, che conteneva la promessa di una restituzione dei prigionieri di guerra italiani ai militari italiani che si fossero arresi, protestò vibratamente, il Premier inglese non intendeva fare alcuna concessione per ottenere la resa italiana.
La Gran Bretagna aveva un atteggiamento inflessibile e rigoroso verso l’Italia, avendo il nostro paese minacciato direttamente l’Impero Britannico nel Mediterraneo, l’America nutriva invece verso l’Italia un atteggiamento mite e comprensivo; peraltro in America era già presente una grossa rappresentativa italiana costituita dagli emigrati che poteva essere decisiva ai fini dei risultati elettorali.
La promessa fatta all’inizio venne mantenuta, i soldati italiani catturati in Sicilia vennero liberati sulla parola, ma una volta ottenuto l’obiettivo della resa italiana, l’impegno preso dagli Americani non venne più mantenuto.
Fin dall’inizio della guerra gli Alleati si erano accordati sulle relative zone di influenza e l’area del Mediterraneo rientrava nella sfera politica inglese
Per cui, dopo la caduta del fascismo del 23 luglio 1943, per quanto riguardava le sorti dell’Italia, prevalse la posizione della Gran Bretagna; gli inglesi appoggiarono la Monarchia e il Governo del Generale Badoglio, che pur essendo compromessi con il regime fascista, garantivano un’Italia non-comunista.
Vista da drammatica situazione nella quale si trovava il Paese, il Governo Badoglio in accordo con il re Vittorio Emanuele III, firmò quindi due convenzioni di armistizio con gli alleati: la “breve” del 8 settembre 1943 e la “lunga” del 29 settembre 1943
Tali armistizi non parlavano dei prigionieri, ad eccezione dei prigionieri alleati per i quale era prevista espressamente la consegna immediata ai rappresentanti delle Nazioni Unite o a chi da loro indicato, particolare questo non indifferente che gli americani pretesero anche in osservanza dell’art. 75 della Convezione di Ginevra del 1929.
Al contrario, per quanto riguardava la sorte dei prigionieri italiani in mano alleata, nei due armistizi non se ne trovava nessuna traccia.
Fra le ipotesi che circolarono per spiegare questa anomalia vi fu chi pensava che il Governo se ne fosse dimenticato, altri che fosse una imposizione armistiziale dagli americani, ma ne l’una ne l’altra ipotesi erano corrette.
Probabilmente la vera ragione fu un incredibile combinato disposto, fra una inopportuna buona fede e una certa faciloneria tutta italiana, la quale fece presumere al Governo che avendo tenuto fede agli impegni richiesti (la resa e restituzione dei prigionieri alleati alle Nazioni Unite) che erano nelle “propagandistiche” promesse americane condizioni per il rilascio dei prigionieri italiani, non fosse necessario precisare la sorte degli stessi nel testo scritto dell’Armistizio.
Il 13 ottobre 1943 contemporaneamente alla dichiarazione di guerra dell’Italia alla Germania, l’America dichiarava l’Italia paese cobelligerante, un termine piuttosto ambiguo, l’Italia non era più un nemico, ma nemmeno un alleato.
La partecipazione attiva dell’Italia alle operazioni militari venne immediatamente scartata dagli Alleati, non appena si resero conto del numero di divisioni superstiti (6) rispetto a quelle schierate all’entrata in guerra (61), per non parlare dell’equipaggiamento militare armi comprese, delle truppe italiane superstiti, che era risalente al 1918.
Vista l’impossibilita’ di utilizzare le forze militari italiane residue per la guerra, gli Alleati decisero di utilizzare i prigionieri italiani principalmente come forza lavoro, della quale c’era gran richiesta sia in Gran Bretagna che in America visto che gli uomini erano in guerra, in contrasto con la Convenzione di Ginevra del 1929 che prevedeva il rimpatrio dei prigionieri di guerra dovesse avvenire nel minor tempo possibile.
Vennero quindi addotte delle motivazioni ufficiali per ritardare il rimpatrio dei prigionieri di guerra italiani, che furono: le difficoltà nei trasporti per mare e per terra, la presenza di fascisti pericolosi fra i prigionieri e il non voler oberare di attività supplementari il Comando Alleato in Italia.
Vi fu quindi una lunga ed estenuante trattativa tra il Governo italiano che reclamava la restituzione dei propri prigionieri e gli Alleati che con un pretesto o un altro rinviavano sempre questo momento.
La situazione nella quale versavano l’agricoltura e l’industria americane, a corto di mano d’opera, fu determinante nella scelta americana di trattenere i prigionieri italiani il più a lungo possibile.
La forza lavoro dei prigionieri italiani oltre a essere irrinunciabile era procurabile a bassissimo costo, ma occorreva ottenere da questi una cooperazione su base volontaria per conseguire il massimo contributo possibile e non doverli tenere sotto continua e stretta sorveglianza.
La Convenzione di Ginevra vietava esplicitamente ogni tipo di impiego del prigioniero di guerra finalizzato all’aiuto e o all’approvvigionamento delle forze combattenti detentrici del prigioniero medesimo, per superare questi vincoli in modo legale era necessario che le autorità americane realizzassero un accordo con le autorità italiane.
Eiseinhower il 9 ottobre 1943, chiese ufficialmente di poter utilizzare gli ufficiali e i soldati italiani prigionieri di guerra in Nord Africa, per servizi “ … non di combattimento ma connessi con lo sforzo bellico alleato”.
Due giorni dopo il governo italiano rispose “oralmente” in modo positivo alla richiesta americana, inoltre l’11 ottobre Badoglio inviò un messaggio ai prigionieri italiani nel quale esprimeva la volontà di una collaborazione attiva con gli Alleati e quindi il dovere da parte di tutti gli italiani di aiutarli in ogni modo possibile.
Non vi fu quindi un vero e proprio accordo, ma una ampia disponibilità anche se non formalizzata, da parte delle autorità italiane, volta al desiderio di rientrare nelle “simpatie” americane.
Per avere una visione complessiva degli italiani detenuti in mano straniera, occorre fare una distinzione fra i Prigionieri di Guerra protetti dalla Convenzione di Ginevra e gli Internati (IMI: internati militari italiani) che non godevano di queste garanzie.
Nonostante la diversa provenienza delle fonti consultate e delle diverse interpretazioni dei documenti da parte degli studiosi della materia, la maggior parte di questi converge su questi dati relativi alla ripartizione dei prigionieri di guerra italiani in mano agli Alleati:
- 408.000
- 125.000
- ïin mano francese in Nord Africa circa 38.000
- ïin mano sovietica circa 20.000
per un totale di 591.000 prigionieri di guerra.
gli internati militari italiani questi erano cosi divisi:
- 615.000
- 30.000
- 20.000
- 35.000
- 62.500
- 2.500
per un totale di 765.000 internati.
Il numero complessivo di italiani privati della libertà fu di circa 1.356.000.
Le condizioni di vita nelle quali si trovarono a vivere sia i Prigionieri di guerra che gli Internati furono le pi˘ disparate, in relazione alla potenza catturante e al luogo di prigionia.
La Convenzione di Ginevra tra gli Stati Uniti e le Altre Potenze, riguardanti i prigionieri di guerra, del 17 luglio del 1929, venne firmata da molti dei paesi coinvolti nella Seconda Guerra Mondiale, a parte il Giappone e la Russia; Stalin riteneva che un soldato dovesse ìo vincere o morireî.
La Convenzione del 1929 tratteggiava in maniera sintetica la dimensione economica relativa ai prigionieri di guerra, stabiliva che i prigionieri ricevevano, una volta al mese, la paga di un militare di grado equivalente dellíesercito che li aveva fatti prigionieri, inoltre ad alcuni prigionieri eí richiesto di lavorare nelle aree non direttamente coinvolte nel conflitto e tale prestazione era retribuita in buoni dei prigionieri di guerra.
In particolare negli articoli 23 e 24 decretavano quanto segue:
- ïarticolo 23: I versamenti fatti ai prigionieri a titolo di retribuzione dovranno essere rimborsati alla fine delle ostilità dalla Potenza presso cui i prigionieri hanno prestato servizio.
- ïarticolo 24: I soldi dovranno essere versati ai singoli prigionieri alla fine della prigionia. Durante la prigionia sarà concesso di trasferire somme alle banche o ad individui del paese d’origine.
Il problema dei prigionieri di guerra, nei tempi di guerra di massa e’ strettamente connesso con la guerra stessa, tanto e’ vero che nello stesso giorno in cui l’Italia entrava in guerra vennero fatti i primi sette prigionieri italiani a Malta, i militari si trovavano a bordo di una nave in sosta nel porto, gli inglesi li dichiararono prigionieri e li rinchiusero nella fortezza di Malta.
Nei campi ci concentramento che si venivano a creare in quasi tutto il mondo, per tenere segregata la massa dei militari avversari fatti prigionieri, spesso si svilupparono fra i prigionieri comunità virtuose e/o malavitose, in quasi tutte ci fu il bisogno di lavori di piccola manutenzione del Campo e in alcuni di questi i prigionieri lavorarono volontariamente per le imprese o gli allevamenti esterni al campo.
All’interno del Campo si venne a stabilire una vera e propria circolazione monetaria fatta di “oggetti paramonetari” ovvero i buoni, dovuta alla necessità di remunerare le attività svolte dentro o fuori il Campo, con del denaro che non fosse quello circolante all’esterno, per non dare un vantaggio ad eventuali fuggitivi, ma che fosse riconoscibile, pagabile al portatore e accettato dallo Spaccio del Campo, dove si potevano acquistare modesti generi di conforto come: carta da lettera, sigarette, tè, fette di torta, ecc.
Questi buoni creavano all’interno del campo un microcircolazione a tutti gli effetti: i buoni erano emessi dalla Amministrazione del Campo, poi spesi negli spacci e gli utili da questi realizzati dovevano essere impiegati a favore dei prigionieri stessi.
Solo a titolo di esempio, delle diverse tipologie dei buoni per i prigionieri di guerra, solitamente stampati ma in qualche rarissimo caso manoscritti, sono qui sotto riprodotte le foto di alcuni buoni molto rari e solo recentemente rinvenuti quasi per caso, da uno studioso e collezionista di Posta Militare, l’Ing. Antonio Pasquini, in una busta di Posta Militare proveniente dalla Giamaica i primi e in una situazione analoga il buono dell’Uganda.
Buoni dei Prigionieri di Guerra in Giamaica, lo spessore dei biglietti e’ di circa 1 mm.
Valore Dimensioni
- 59 mm. x 30 mm.
- 58 mm. x 28 mm.
- 58 mm. x 30 mm.
- 62 mm. x 30 mm.
Buoni dei Prigionieri di Guerra in Uganda, lo spessore del biglietto Ë quello di un foglio di carta
Valore Dimensioni
- 36 mm. x 25 mm.
Immagini
fig. 1 = Busta di Posta Militare proveniente dalla Giamaica
fig. 2 = Buono da one penny (1d), Kingston Camp, Giamaica
fig. 3 = Buono da three pence (3d), Kingston Camp, Giamaica
fig. 4 = Buono da six pence (6d), Kingston Camp, Giamaica
fig- 5 = Buono da one shilling (1/-), Kingston Camp, Giamaica
fig. 6 = Buono da 5 cts., Entebbe, Uganda
Bibliografia
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