di Alberto Castellotti
LE MONETE ITALIANE CONIATE CON L’ORO DELL’ERITREA E QUELLE SVIZZERE CONIATE CON L’ORO DI GONDO.
Come ben sanno i decimalisti che racccogliendo, a guisa di industriose api, le monete del Regno d’Italia e le loro consorelle degli antichi stati si cimentano a memorizzarne i tipi e le date e a sciorinarle come sono soliti fare i tifosi di calcio con le formazioni delle squadre, fra le tante, se non troppe, emissioni dell’ultimo re Vittorio Emanuele III (certamente più attivo e attento alla numismatica che non agli affari di stato) vi è un gruppo di “marenghi” da 20 lire d’oro con data 1902, che presentano al diritto, sotto il mento del re, il contrassegno di una piccola ancora. L’immagine di questo attrezzo, di fondamentale importanza per la navigazione, ci avverte che si tratta di esemplari battuti impiegando l’oro estratto dalle miniere della colonia d’oltremare Eritrea, etimologia riferita al Mar Rosso (dal greco erytraios, “rosso”), mare che la lambisce.
Si tratta di 115 pezzi in tutto, per un totale di 742 grammi scarsi, pari a 668 di oro fino, ben misero gruzzolo, se si pensa che per le ricerche e le prospezioni del metallo giallo furono spedite là schiere di geologi e persino alcuni rabdomanti. In compenso, i fortunati e facoltosi collezionisti che ne possiedono almeno uno, sanno che oggigiorno vale soldoni, diciamo tra i 30 e i 35mila euro se di qualità ottimale.
A scatenare la febbre dell’oro all’epoca del colonialismo all’italiana fu il ritrovamento, nel 1897, vicino ad Asmara, di un ciottolone di quarzo con un buon contenuto di oro nativo, auspicio che lasciava ben sperare in un nuovo Eldorado. Quali siano stati, invece, i deludenti risultati delle successive ricerche è facile immaginare e anche i lavori minerari condotti nel dopoguerra da ditte estere specializzate portarono a scarsi risultati con conseguente fallimento delle imprese preposte e aumento dei disastri ambientali provocati da impropri mezzi di sfruttamento.
Ciò che invece può sfuggire – ma non certo agli irriducibili cercatori d’oro sotto forma di marenghi da 20 lire e da 20 franchi – è che anche la vicina Svizzera, o Confederazione Elvetica come si era soliti chiamarla, per dimostrare un’autarchia non disgiunta da un certo orgoglio nazionale, emise monete forgiate con oro locale.
Nel ridente cantone del Valais, raggiungibile dopo essersi inerpicati dal versante svizzero verso il passo del Sempione, in una ridente località chiamata Gondo, frazione del comune montano di Zwischbergen, era in funzione, e lo è stata fino al 1897, una miniera d’oro, ricca di una discreta quantità di metallo giallo disperso nella roccia granito-quarzifera in ragione di circa 40 grammi per tonnellata, tanto da consentire di ricavarne 240 grammi al giorno per un totale, dal 1892 alla chiusura, di 33 kg. L’esaurimento del filone e l’aumento della mano d’opera che, nel momento più redditizio, contava su 500 operai, determinarono la sua chiusura.
Questa località era già nota ai tempi dei Romani così come la valdostana Brusson mineralogicamente affine. Documenti riguardanti il suo sfruttamento risalgono al 1550 ma è solo nel 1660-’61 che un tale Kaspar Stockalper vi intraprese un’attività imprenditoriale che due secoli più tardi indusse la parigina Société Anonyme des Mines ad acquistarne i diritti di sfruttamento per la somma davvero sproporzionata di 2 milioni di franchi oro!
Esistono in Gondo una torre, un edificio di otto piani intitolato allo Stockalper rovinato da una frana verificatasi nel 2000 che causò purtroppo 13 vittime tra gli abitanti, e il Museo Albergo Stockalpertum aperto dopo la ricostruzione del borgo avvenuta nel 2004, che offre un pacchetto turistico di visita ai cunicoli scavati nella roccia e, allo stuolo di visitatori in cerca di improbabili pagliuzze luccicanti garantisce, mal che vada, un cocktail di benvenuto a base di raclette e un buon bicchiere di Fendant du Valais accanto a una spartana ospitalità per la notte, paragonabile a quella degli ostelli della gioventù.
Ma lasciamo adesso quest’itinerario geo-storico-turistico per addentrarci negli aspetti numismatici.
Come già anticipato nella premessa, con un mucchietto d’oro estratto da questa miniera venne battuto un totale di 73 pezzi da 20 franchi in due tipologie ripartite su tre date: 25 monete del 1893, 19 con data 1895 e 29 del 1897. Si tratta di monete molto belle, di elegante stile ottocentesco, tra le più riuscite nella cosiddetta serie dei marenghi. Ed ecco la descrizione del primo pezzo, quello recante la data 1893:
Al diritto CONFOEDERATIO HELVETICA, ai lati di una maestosa testa dell’Elvezia, stretta in Confederazione, volta a sinistra, entro un cerchio perlinato, che porta un diadema con la scritta libertas sul capo, ornato di perle minute, i lunghi capelli fluenti sul collo e fermati sulla nuca da un nastro annodato che trattiene un ramo di alloro sopra il quale sono disseminati boccioli di genzianelle montane.
Al rovescio, a sinistra entro un cerchio perlinato, un tralcio di quercia con ghiande, alternato a uno di alloro con bacche e, di nuovo, un tralcio di quercia con ghiande e uno di alloro con bacche alternati; il tutto anche a destra, con le estremità dei tralci legate all’incrocio in basso da un nastro, al di sopra del quale si legge la data 1893 e al di sotto la lettera B, a indicare la zecca di Berna. I rami affiancano uno scudo crociato solcato da fitte bande verticali sul quale campeggia una croce che, al centro, ne reca un’altra più piccola incussa da un punzone a indicare la speciale emissione con l’oro della miniera di Gondo. Al di sopra dello scudo, una stella a 5 punte e, ai lati, 20 a sinistra e FR a destra, come indicazione del valore, 20 franchi.
Sul taglio, in rilievo, DOMINVS***PROVIDEBIT***********
Gli artefici della moneta furono: Albert Walch di Berna per il disegno del diritto, Christian Buhler di Berna per quello del rovescio, l’incisore dei coni Karl Schwenzer di Stoccarda.
I dati tecnici: diametro 21 mm, peso g. 6,451619, titolo 900‰, pari a 22 carati, oro fino gr. 5,806450 in lega con rame e una piccola percentuale di argento in ragione di un totale del 100‰. Spessore del tondello 1,25 mm. Assi dei coni paralleli e ruotati di 180°.
Riferimenti bibliografici: Divo 28 prova, HMZ 2-1194J, Fried. 498
Validità per il tipo convenzionale 27/09/1936.
Le caratteristiche del pezzo con data 1895 sono le stesse mentre i riferimenti bibliografici sono: Divo 34 prova, HMZ 2-1194 m, Fried. 498.
La terza moneta della serie di Gondo è differente dalle altre due. Infatti al diritto abbiamo: helvetia e un delicatissimo busto muliebre di sposa entro un cerchio perlinato, personificazione dell’Elvezia o tradizionalmente di Verena, i capelli fermati da una lunga treccia doppia ma mossi dal vento sotto il collo a sinistra, cinto da un fazzoletto e da un ampio bavero ricamato di edelweiss. Sullo sfondo le Alpi Svizzere e sotto la spalla sinistra la firma dell’incisore F. Landry.
Al rovescio, entro un cerchio perlinato, uno scudo ottagonale sagomato con bande verticali sul fondo e ornato al centro da una croce che a sua volta, nel mezzo, ne reca un’altra più piccola punzonata e incussa a indicare, come negli altri due casi, una moneta battuta con l’oro della miniera di Gondo. Al di sotto un ampio ramo di quercia con ghiande, ornato da un nastro legato in alto; sotto, la data 1897 e in basso, a destra, la lettera B indicante la zecca di Berna, ai lati 20 a sinistra e FR a destra, come indicazione del valore, 20 franchi. Sul taglio 22 stelle, numero corrispondente a quello dei cantoni di allora diventati attualmente 26.
Assi dei coni paralleli e ruotati di 180°.
Autore del disegno dei coni e loro incisore: Fritz Ulysse Landry (1842-1927) di Neuchâtel.
Le caratteristiche teniche son le stesse delle due monete descritte in precedenza.
I riferimenti bibliografici: Divo 34 prova, HMZ 2-1195b, Fried. 501.
Il nome della moneta è Vreneli, termine informale ma che deriverebbe dalla figura raffigurata al diritto, cioè Verena, nome di santa documentato dal tardo latino ecclesiastico di origine ignota derivabile per ipotesi da verus o verandus o, nella forma copta, da Berenice.
Nella tradizione una santa con questo nome, venerata il 1 settembre, vergine egiziana del terzo secolo, faceva parte della cosiddetta legione tebana stanziata nell’antica Elvezia che si dedicò, dopo la sconfitta, all’evangelizzazione degli Alemanni. Va ricordata anche santa Maria Bernarda Butler, nata Verena, commemorata l’11 maggio e fondatrice delle suore francescane.
Due sarebbero i nomi delle modelle, a contendersi la scelta del Landry per rappresentare la Verena della moneta: la prima, Françoise Kramer-Egli (1859-1946) di Neuchâtel e la seconda Rosa Tanner (1878-1946) di Gadmen nell’Oberland bernese.
Fin qui il discorso storico, sostenuto da quello tenico, per un gruppo di monete che il celebre numismatico Jean-Paul Divo ha considerato “prove” in quanto non entrate mai ufficialmente in circolazione, note, come si è detto, in pochissimi esemplari, di grande interesse collezionistico e alto valore commerciale.
A questo punto i collezionisti potrebbero avere dei forti dubbi ad accarezzare l’idea di acquistarli per la loro grande rarità pensando che l’unica differenza di queste monete rispetto agli specimen commerciali con queste date siano le piccole croci impresse al rovescio, certamente facili a essere realizzate da falsari malintenzionati.
Ma ecco un particolare che rende le monete di Gondo uniche e inimitabili: la presenza dell’oro nativo, cioè quello reperibile nel quarzo, che conferisce alle monete una particolare lucentezza e soprattutto la lega di accompagnamento, costituita da rame con piccole quantità di argento in grado di conferire alla superficie, oltre all’impiego di coni puliti, uno speciale “lustro di zecca” con elevato potere riflettente e risalto ai rilievi che risultano, secondo un termine tecnico, “satinati”.